Milano, 25.VI.2008

Qualche tempo fa un mio carissimo amico mi suggeriva un passatempo un po' nostalgico: ricordare le cose più belle, significative, le più importanti dell’anno, del nostro anno. Tra le cose che abbiamo condiviso, andando un po' a ritroso nel tempo, su una speciale non potevamo non trovare immediatamente intesa… proprio oggi ricorrono sei mesi da quel giorno a Milano, anzi da quei giorni che rimarranno nella nostra memoria molto a lungo. C'erano Enrico, David, Gianluca, Stefano e...

I was there, c'ero anch'io: prendo a prestito brevemente la lingua anglosassone non a caso perchè è la lingua del rock, e oggi vi intratterrò - un po' troppo a lungo, forse - con una avventura rock. Stimando altamente la preziosità del tempo e della pazienza dei lettori ho diviso il racconto in tre parti che camminano bene da sole ma non disdegnano di uscire tutte insieme; l'ordine in cui si presentano dovrebbe avere un senso, per questo le ho postate contemporaneamente.

 In Boss we trust

Quando ho scritto "avventura rock" mi è venuto in mente un vecchio programma in cui Celentano si divertiva a etichettare le cose e le persone attorno a lui come "rock" o "lente". La distinzione era un po' sfuggente ma ricordo che, come avviene per le questioni nazional-popolari, se ne fece un piccolo caso in seguito al quale ogni cosa di cui si parlava doveva essere così o cosà. Generalmente erano rock le cose più moderne, progressiste, le cose di "rottura"; lento era tutto quello che è conservatore, reazionario, stantìo. Le rocce contro la lava, il divenire contro "il divenuto" (non mi prendo la responsabilità di contrapporvi l'essere). Mi chiedo se, costretto a schierarmi, potrei ascrivermi nell'una o nell'altra categoria ma, come molte altre cose nella mia esperienza, mi ritrovo a partecipare di entrambe e, quindi, a non essere pienamente né l'una né l'altra. Perché parlo di questo? Perché mi sono posto il dubbio se occorre “essere rock” per comprendere appieno un rocker.

Bruce Springsteen è il classic rock per antonomasia: è voglia di fuga per la libertà, voglia di strappare un po’ di bene a questa vita, voglia di tuffarsi nel male e per uscirne più forti; è l’animale notturno, lo “Spirit in the night” che accende e conquista la città, che ne consuma l’amore su una pila di rifiuti, pneumatici che sfilano sull’asfalto bagnato, corse su auto prestate alla ricerca di dignità e significato, alla ricerca di due occhi e di due labbra, alla ricerca del calore o di un semplice tocco umano. È questo lo Springsteen che vide Jon Landau quando scrisse eccitato su The Real Paper, a qualche mese dall’uscita di Born to run: «I saw the rock and roll future and his name is Bruce Springsteen».
 
Ma il Boss è anche il cantore dell’american dream e della sua dissoluzione, l’artista che più l’ha rappresentato, che l’ha vissuto e che ne ha colto le contraddizioni; la potente e roboante icona che Reagan prese a simbolo del riscatto americano mistificando la sua canzone più nota, Born in the USA, che in realtà di quel riscatto mostrava, assieme a moltissime altre sue canzoni, solo i cocci. È uno degli attori di una grande storia di amicizia (la E Street Band) che dal New Jersey è sbarcata ben oltre Asbury Park, ben oltre New York, ben oltre l’America esportando musica turgida di umori, passioni, vita, sincerità, dolore, delusione, rabbia, gioia, amore. Figlio di un operaio, cresciuto in  un agglomerato industriale - Freehold, nel New Jersey -  dove «nessuno va se non c’è obbligato» (così diceva Walter Matthau nel film I ragazzi irresistibili), diventa l’interprete di tutta una generazione cui quel sogno è stato rubato, costretta a lavorare senza prospettiva, senza riscatto. Un artista le cui ferite sulla pelle si sono trasformate, senza filtri, in note, accordi, parole e poi in canzoni che narrano della propria esistenza in mezzo a quella degli altri, della propria vita sentimentale, di amante e poi di marito, financo di padre. 

Divenuto un uomo di mezz’età, con un matrimonio fallito alle spalle e tante sedute dal suo “strizzacervelli junghiano”, il Boss si risposa con la donna della sua vita e inizia a interrogarsi sul mondo su cui cresceranno i suoi figli e sulle persone che ci vivono. È da qui che, riprendendo gli splendidi precedenti di canzoni come Wild Billy’s circus story, Highway Patrolman (Sean Penn ci trasse un film da questa storia, Lupo solitario) o The river  - con gli E – streeters a curare i propri progetti solisti -  nascono capolavori di storytelling come Cautios man,  Streets of Philadelphia o la recentissima The wrestler, come gli album Devils and dust e The ghost of Tom Joad, ispirato all’omonimo personaggio steinbekiano. Tom Waits, uno dei grandi songwriter americani, dice di lui: «Bruce fa dei piccoli film. […] Lui stava molto ad ascoltare e assorbiva le cose. Possiede un grande senso visivo e un grande equilibrio». Canzoni come Brothers under the bridge e Gipsy biker, tra le altre, su cui aleggia lo spettro dell’esperienza devastante della guerra, o l’album The rising che narra, non senza contraddizioni, l’America dopo il 2001. All’alba del 2009 il Boss continua a cantare, continua a raccontare l’America e gli americani che, lo abbiamo visto ad ottobre, sembra non abbiano smesso di “lavorare su un sogno”. Senza illuderci di conoscere il destino di questa versione aggiornata dell’american dream, ci accontentiamo di vederne una declinazione nelle sue nuove, imminenti canzoni.

Per tutto questo e per molto altro i fan “confidano” nel Boss. La “sintonia” con queste canzoni, la loro sincerità e la concretezza dei personaggi hanno creato un rapporto privilegiato con gli ascoltatori, quasi un rapporto di fiducia. Quando Bruce canta Better days o Land of hope and dream o quando intona “Come on, rise up!” (da My city of ruins) sembra quasi più facile crederci, sembra possibile anche essere ottimisti. Quando canta Bobby Jean (che racconta l’amicizia con Little Steven) i fan ripensano ai propri amici, alle proprie storie perché probabilmente anche loro hanno detto cose simili: “Sei rimasto con me quando tutti gli altri se ne andavano, storcendo il naso/ Ci piaceva la stessa musica, ci piacevano le stesse band/ ci piacevano gli stessi vestiti/ Ci dicevamo che eravamo i più scatenati”. Come osservò una volta Tom Petty Springsteen, pur essendo una delle ultime grandi icone del rock, potrebbe passeggiare tranquillamente tra i suoi ammiratori come se fosse un vecchio amico. Ci si fida del Boss, si ha fiducia in lui… a questo punto diventa superfluo domandarsi quanto bisogna “essere rock” quando il tuo idolo ha superato la questione per andare molto più avanti, molto più in alto.

Jersey Devil is coming in town
 
Prendo spunto da una canzone natalizia del nostro, Santa Claus is coming in town, vista anche la consonanza con questo periodo. Allora… l’agitazione comincia a Dicembre dell’anno scorso, circa un anno fa, quando Enrico ed io adocchiamo l’inizio della messa in vendita dei biglietti dopo la notizia della prosecuzione estiva del tour: erano passate allora solo poche settimane dal concerto milanese al Datchforum, i cui biglietti andarono sold out nell’arco di mezza giornata (motivo di inenarrabile sconforto nel mese precedente); rincuorati dall’inattesa chance eravamo davvero pronti a tutto. La prima, ovvia incombenza fu serrare i ranghi per selezionare gli attori della probabile spedizione; l’unica vera preoccupazione era però come sempre la difficoltà di procurarsi, qui dal profondo Sud, i preziosi biglietti per il prato, quelli che ci avrebbero permesso di giungere fin sotto il palco. Sguinzagliammo emissari in tutta Italia: a Catania, a Roma (ringrazio ancora la disponibilità e la gentilezza del mio caro amico Giovanni) e a Milano dove si concentravano (contando anche quelle delle province lombarde) il 90% delle prevendite nazionali. E proprio a Milano, dopo i frustranti insuccessi nelle altre parti d’Italia, il fratello di Gianluca (santo subito!) dopo non poche difficoltà mette le mani sul prezioso bottino. Sollievo, euforia. Tutto il resto viene da sè, volo aereo, scelta e prenotazione dell’hotel.

Programma: primo giorno arrivo, sistemazione in hotel e preparativi per il concerto; secondo giorno dedicato interamente al concerto; terzo giorno visita (parziale) di Milano. Si può dire che abbiamo rispettato bene il programma; della gita sono indimenticabili alcuni momenti: tutto giorno 25 (di cui dirò presto!) nonostante il caldo insopportabilmente umido che ci ha accompagnato sempre, o la spietata freddezza del portiere dell’albergo che, incapace di spiegarsi la nostra agitazione, commentava l’ennesimo suicidio nella linea rossa della metropolitana, quella elettrificata: «…così, se non arriva il treno, si è certi di morire fulminati. È un fenomeno che aumenta con il caldo». La bella chiacchierata al secondo piano del fast food accanto al Duomo e la divertente ricerca delle provviste («Uè ciccio, qui siamo nel centro di Milano, cosa vai cercando un supermercato?»), la rapina di € 22,50 per tre appena decenti “panini con salamella”, appena usciti da San Siro, e i tre chilometri di camminata per raggiungere l’hotel per la carenza dei mezzi pubblici, nonostante l’annunciata estensione degli orari (si vede un solo tram, preso d’assalto come una diligenza, che passa davanti ai nostri occhi mentre tentavamo di deglutire le salamelle). Belle e interessanti le visite alla Scala, Sant’Ambreus e al Castello Sforzesco, desolante il deserto di Piazza Duomo dopo le 21 (piazza Duomo a Milano, la capitale finanziaria del Paese, non la piazza Duomo del nostro paesello!), mitiche le scorpacciate durante le due colazioni offerte dall’albergo, comica la rincorsa del Flybus per Linate che stava per mettersi in movimento e che l’autista non voleva fermare per una pretesa “giustizia oraria” incomprensibile per noi barbari meridionali. Lunga attesa in aeroporto, dove siamo arrivati fin troppo presto, e dove ho comprato prima del ritorno il souvenir della mia gita, il fiammante e superbo marsupio ufficiale dell’Inter (i souvenir del concerto li avevamo già presi all’interno dello stadio, magliette ufficiali e poster). Ma quasi certamente dimentico molte altre cose di questo bellissimo viaggio: spero che le aggiungano presto i miei amici.

Summertime Bruce


Sveglia presto il giorno del concerto, un’ultima controllata agli zaini preparati la sera prima, tiriamo fuori acqua e viveri dal frigo, li sistemiamo e ci affrettiamo verso la sala ristorante dell’albergo (piacevole sorpresa, come accennavo). Subito dopo uscita in strada, profondo respiro e via verso piazzale Lotto; dribbliamo un bagarino appostato sul tram, tutto sommato gentile, e scendiamo alla nostra fermata, dalla quale si vedeva già la grande sagoma dello stadio Meazza. Sono le 9,30. Un grosso cartello con la scritta “ingresso prato” ci indirizza verso il gate numero 10, uno di quelli dove da poco hanno installato i tornelli; c’è già gente assiepata davanti al cancello, un ragazzo romano che ha dormito all’addiaccio e vari altri; nell’altro lato dello stadio, già sotto il sole insopportabile di quei giorni, c’è però una folla più numerosa. Tutti pensiamo che si tratti della gente con i tagliandi per il terzo anello; purtroppo si scopre ben presto che erano in attesa in realtà di circa 900 “Magic braccialetti” per il pit e quindi, pur essendo arrivati in tempo per averli, restiamo belli e fregati. A questo punto, dopo l’inutile spedizione di una piccola delegazione del nostro gate per parlamentare con gli organizzatori, non ci resta che bivaccare in attesa dell’apertura; le condizioni sono accettabili, siamo all’ombra e ben equipaggiati, tutt’attorno gente molto simpatica (la maggior parte più anziana di noi) che racconta volentieri le proprie esperienze springsteeniane. Sopra la mia testa, sui grossi pilastri di ferro del tornello, frasi sconce di ultrà meridionali (purtroppo), io per ingannare il tempo tiro fuori la montagna di cartoline da spedire e inizio a compilarle con l’aiuto (e le firme) degli altri. David scatta una marea di foto, parte delle quali potete vedere qui.

A un certo punto a qualcuno viene in mente, non so se ingenuamente o diabolicamente, di compiere un esperimento sociologico sulla folla allegramente sdraiata sull’asfalto: creare una lista con i nomi di tutti, secondo l’ordine di arrivo, collegata con dei numeri che ci venivano associati segnandoli sui dorsi delle mani (!); lo scopo era quello di potersi allontanare senza il problema di perdere la precedenza nei confronti di chi arrivava dopo. Il piano prevedeva degli appelli ad intervalli regolari per depennare eventuali assenti e far scalare di posizione gli altri. Senonchè, dopo la nomina delle “squadre” e la schedatura di quasi tutto il popolo del gate, dopo il primo appello effettuato nonostante qualche difficoltà, arriva il momento  - sono le 14,00 – di far passare avanti gli sprovveduti che avevano abbandonato la postazione con il (pallido) conforto di riaverlo in forza della lista. Qui emergono i limiti di questo esperimento: dopo le prime esortazioni dei volenterosi organizzatori – perlopiù springsteniani di lungo corso – e dopo il trasloco di pochissime leali persone (fra cui anche Stefano, che per questo “riabbracceremo” solo all’interno dello stadio), si rincorrono voci, urla, lamentele ma di fatto la situazione resta invariata; noi stessi, davanti al dilemma etico, decidiamo per la tattica attendista (e intelligente) suggerita da Gianluca, quello fra noi che ha la maggiore esperienza in fatto di concerti. Gianluca è un mito, è uno che ha visto suonare i Pink Floyd e i Rolling Stones, e scusate se è poco. In sintesi, la nostra posizione era: «se si applica correttamente il sistema, lasciamo il posto a quelli arrivati prima di noi; altrimenti ognuno si tiene il posto che occupa». Intanto avevamo già fatto fuori circa due terzi dei panini prosciutto-formaggio solertemente preparati la sera prima; continuavamo ad essere all’ombra ed eravamo abbastanza soddisfatti del fatto che i fortunelli dell’altro gate si arrostivano sotto il sole già da cinque ore.

Verso le 16,30 gli imbecilli del servizio d’ordine iniziano ad agitarsi dietro il cancello facendone immaginare l’imminente apertura; purtroppo si rivelò uno scherzo davvero stupido perché la ressa che si diresse velocemente contro i cancelli non si allentò più fino all’apertura, cosa che avvenne dopo l’ora e mezza peggiore della mia vita, pressato tra i divisori che precedono il tornello, con il gomito di un marcantonio sul naso (fortunatamente il suddetto si mostrò abbastanza attento) e il suo ombelico come mio interlocutore; per rialzare lo spallaccio del mio zaino, scivolato per via della calca, ci volle l’aiuto di due persone (due sardi per la cronaca, con cui abbiamo scherzato sui miti di terroni e polentoni). Aperti i cancelli la folla confluisce all’interno senza problemi; Enrico ed io perdiamo qualche secondo a causa del solito controllo delle bottiglie (brillantemente eluso da Stefano con uno scatto da centometrista), spuntiamo sul campo e corriamo svelti per raggiungere l’area sotto il palco. I primi arrivati furono Gianluca (ovviamente) e Stefano con David; la scelta mia e di Enrico, arrivati subito dopo, fu per la posizione decentrata ma più ravvicinata degli ultimi due. Gianluca ci raggiunge poco dopo; sono da poco passate le 18,00

Il manto erboso di San Siro, tranne la striscia attorno alle panchine, è coperto da dei pannelli protettivi sui quali ci sistemiamo per affrontare le residue ore di attesa; in mezzo a noi fanno lo slalom valanghe di "bibitari" carichi di bevande e snack dai prezzi esorbitanti. Facciamo amicizia con alcune ragazze, romane, che avrebbero proseguito la gita a Parigi per la tappa francese del tour, una delle quali aveva dei parenti dalle nostre parti; subiamo la piacevole catechesi di uno dei grandi springsteeniani, un signore di mezza età davvero coriaceo che, dopo aver ascoltato le nostre esperienze e aver sentito stupito che questa era la nostra prima volta ad un concerto del Boss, afferma deciso: «dopo questo concerto, tutti gli altri che avete sentito finora scivoleranno alle sue spalle». Siamo circondati da fan la cui devozione è eroica e incondizionata e ci sentiamo davvero fortunati soprattutto perché si vocifera che questo potrebbe essere l’ultimo tour di Springsteen con la E – Street Band, e cioè gli amici di una vita, una delle leggende del rock. Fra simili pensieri e un’attesa sempre più febbrile lo stadio si riempie in ogni ordine di posti; si commentano le presenze di molteplici VIP in tribuna, Ligabue, Lucio Dalla, etc. Poco prima del momento clou si registra l’applauditissima apparizione di Max Weinberg per fare alcune foto; alcuni tecnici danno una messa a punto all’illuminazione salendo sulle impalcature come acrobati; in cima ad esse, da una parte la bandiera italiana, dall’altra quella americana (l'avete vista in una delle foto precedenti!).

Ore 20, 54: un boato assordante accoglie la E – street band, ultimi escono Big Man e il Boss che esordisce: «Milano… fa abbastanza caldo? Fa abbastanza caldo? E noi ne faremo ancora di più!» e attacca una rara e potente Summertime blues di Eddie Cochran. Le prime sei canzoni scivolano senza pausa, quasi in maniera forsennata – si tratta di brani irresistibili dal vivo come Out in the street, la nuova Radio nowhere (suonata davvero selvaggiamente), una potentissima Prove it all night (grande assolo del nostro) e due cavalli di battaglia come The promised land e la mitica Spirit in the night – il pubblico è assolutamente in visibilio, ha cantato ogni canzone e continuerà a farlo fino alla fine. Ad un certo punto si alzano delle mani con dei cartelli che contengono delle richieste di canzoni; impossibile descrivere la mia emozione appena il megaschermo inquadra il cartello prescelto dal Boss su cui è scritto None but the brave, una delle mie canzoni preferite, alla quinta esecuzione assoluta (parola di Leo Colombati di Killer in the sun). Memore del trentennale di Darkness on the edge of town Springsteen prosegue con due brani tratti proprio da quel disco, una taglientissima Candy’s room (assolo mozzafiato) e la title track; più avanti avremo il privilegio di ascoltarne altri, su tutti quella che Leo Colombati ha definito «la versione definitiva di Racing in the street» che fa salire davvero i brividi lungo la schiena per la bellezza dell’arrangiamento e dell’assolo al piano di Roy Bittan, e una versione davvero furiosa di Badlands dopo la quale rimango completamente afono. Fra gli altri classici gran belle versioni di Dancing in the dark e Born to run, oltre al canonico show degli E - streeters in Rosalita; da registrare poi una Because the night degna del leggendario tour del ’78 con l’assolo lunghissimo di Nils Lofgren. A questo punto ricevo uno dei più bei regali che i miei amici mi abbiano mai fatto: Stefano e Gianluca, a rischio della loro colonna vertebrale, mi issano sulle loro spalle e ad un tratto divento l’uomo più alto dello stadio, mi sporgo in avanti e arrivo quasi a toccare il Boss, lo vedo chiaramente guardarmi e ricambiare con un sorriso l’ennesimo «Bruuuuuuuce!» urlato con tutto il fiato che avevo in gola. Dell’ultimo album da segnalare dopo Radio nowhere una bella versione di Long walk home e una tiratissima di Last to die; da The rising, oltre all'emozionante title track, una divertente e coinvolgente Mary’s place. Insolita poi una Hungry heart che parte in acustico, con il pubblico che canta la strofa, e finisce con la consueta potenza della E – street band, potenza che si sente anche negli altri brani di Born in the Usa, Darlington County e Bobby Jean, cantate a squarciagola, oltre ad una “scenografica” I’m on fire con il Boss che si rotola su una sedia e sul palco prima di buttarsi quasi tra i fan, l’ennesima di numerose altre occasioni in cui cerca il contatto, la scintilla del pubblico. C’è spazio anche per l’abbraccio di un bambino (il Boss come il papa?) e per un «vi amo! vi amo!!» urlato dal nostro salutando prima dei bis. Autentica chicca della serata, annunciata dall’occhio di bue che fissa strategicamente una richiesta sugli spalti, la versione della celebre Detroit medley, eseguita per la prima volta in Italia; chiude il concerto la solita American land, tratta dalle Seeger Sessions. Ma fuori i 65.000 di San Siro reclamano una chiusura indimenticabile, degna del grande feeling del Boss con Milano: dopo poco allora gli E – streeters riprendono in mano gli strumenti e partono gli accordi di una Twist and shout (al debutto nel tour) che fa quasi tremare le fondamenta di San Siro: sono tredici minuti di balli e canti forsennati che riempiono e traboccano dallo stadio, in barba al coprifuoco imposto dalla Moratti, polverizzato dal Boss per circa mezz’ora.

La marea che abbandona lo stadio silenziosamente quasi non sembra quella che ha cantato e ballato ininterrottamente per tre ore indimenticabili di grande rock; si riaccendono le luci e si chiudono gli occhi, per poco, nella speranza di conservare il più a lungo possibile le immagini di qualcosa di straordinario come una cerimonia rock di Bruce Springsteen.

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