É stato il figlio, prima prova di Daniele Ciprì senza Franco Maresco, è un lungometraggio (tratto dal libro omonimo di Roberto Alajmo) che oscilla tra il grottesco e il drammatico, tra l'acuta e iperrealista osservazione dell'umanità degradata dello Zen di Palermo (riprodotto, per problemi di autorizzazione, a Brindisi) e l'angosciante catarsi di una tragedia urbana e silenziosa. Le musiche sono l'efficace commento di tutto questo: dalle canzoni di Nino D'Angelo ai toni ferali della Sarabande di Handel, accompagnamento delle ultime, sconcertanti scene, epilogo di una vicenda filmata da Ciprì con i ritmi della commedia ma tagliata con il rasoio impietoso di uno scienziato, conclusa da una angoscia indicibile e totalizzante. Lo sguardo del regista viviseziona una lunga serie di personaggi grotteschi, dai protagonisti ai ruoli secondari (interpretati da attori non professionisti), evidenziando lo squallore di esistenze segnate dalla emarginazione, condannate da una parte della società a rimanere tali per sempre. Uno dei temi della vicenda, infatti, se lo valutiamo secondo il vocabolario della tragedia, è la punizione per la colpa dei membri della famiglia di volere elevare la propria condizione sociale, imitando il modello che non le è proprio. L'occhio della telecamera è impietoso e asciutto, senza alcuna complicità, profondamente disilluso, puntato su un microcosmo in cui persino i valori condivisi e accettati dalla comunità sono diversi, sono altri: infatti, a mio parere, il sacrificio finale della vittima designata, che echeggia l'uccisione del capro nella tragedia classica, può esser visto come perdizione o come salvezza, a seconda del codice attraverso il quale è filtrato.
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