mercoledì 29 maggio 2013

Madre notte, che in principio era tutto

Il titolo di questo commento è estratto, senza mutarne il senso originale, da un brano di Goethe citato dal fantomatico curatore delle memorie di Howard Campbell, memorie che formano questo libro; esse sono precedute da una importantissima introduzione dell'Autore in cui si dichiara espressamente la morale del libro, e cioè che "noi siamo soltanto ciò che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a ciò che facciamo finta di essere". E non è un tentativo di Vonnegut di spiazzare o sviare il lettore: questa è in effetti una delle verità descritte dalla storia di Campbell, ma non l'unica, è forse la più importante delle altre, la più significativa; e in effetti, negli anni del Nazismo e in quelli di riflessione che seguirono, il tema tra essere e apparire non è certo di poco conto.

Il protagonista, dalla prigione israeliana in cui si trova, racconta come è diventato una spia americana infiltrandosi nella gerarchia nazista fino a diventare una delle principali fonti della propaganda. Ecco, in questa semplice vicenda si snoda il dualismo tra essere e apparire: l'essere troppo segretamente al servizio del bene, e apparire troppo scopertamente al servizio del male. Ma il racconto, con le sue stratificazioni di esperienze, nel suo groviglio spionistico, va ben più a fondo di questo assunto complicando tutto,e non escludendo che il rapporto tra l'essere e l'apparire in questa vicenda possa essere anche al rovescio. A questo si innesta il problema della responsabilità e della colpa dei singoli nei confronti della Storia, nei confronti dell'orrore. Quello che è più evidente dal racconto è che è impossibile, nelle vicende degli uomini che vissero quegli anni, ravvisare con nitidezza la luce e il buio, il bianco o il nero, ma si può parlare solo di immense sfumature di grigio. Anche se il titolo del libro, "Madre notte", sembra voler dire che l'oscurità sia la partenza e l'approdo di ogni luce, di ogni colore. Più agevole è parlare delle conseguenze che la guerra crea in ogni uomo, da qualunque parte egli stia, sia dei vincitori sia dei vinti, sia dei martiri che degli aguzzini: è certo che essa ruba l'anima e la vita degli uomini trasformandoli in altro da sé, altri da sé; ne spegne o anestetizza la parte razionale, droga la parte emozionale, sublima i sentimenti più ancestrali come l'odio (magistrale le righe dedicate all'incontro con il tenente O'Hare) e perfino l'amore (penso alla storia di Resi Noth). Crea una sorta di schizofrenia, una sorta di scissione nelle persone, così come descritto a proposito della naturalezza della menzogna delle spie come Campbell, come Kraft: è magari la risposta ad un desiderio intimo che ciascuno di loro conserva, o molto più semplicemente una via d'uscita alternativa alla follia. Penso al protagonista e allo "stato a due" con la sua Helga, unica oasi in cui si nasconde il Campbell prima del "doppio gioco", penso a Kraft e all'ironia di vivere, da infiltrato, la vita che in realtà avrebbe desiderato: quella del pittore. E questo stato di scissione, probabilmente, si può estendere anche a traumi diversi dalla guerra.
Lo scrittore Kurt Vonnegut

2 commenti:

  1. Ho letto tempo fa un testo sulla tortura in età contemporanea, che mi ricorda molto un passo della tua recensione, la responsabilità del singolo nei confronti della Storia, dell'orrore.
    Un piccolo saggio che spiega come in realtà i processi psicologici che stanno dietro questo meccanismo siano più sottili e perversi rispetto a quanto si possa pensare.
    Devo ricordarmi di prestartelo! Bella (cattiva) recensione comunque!

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    1. Grazie infinite Mario! Sei molto gentile :-) E con piacere darò un'occhiata a questo saggio! A presto, s.

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