La disillusione tra le righe di questo libro è simile a quella che trasuda dalle righe del Gattopardo, mutatis mutandis; del resto, gli autori sono siciliani, e i romanzi sono all'incirca coevi: uno appare nel 1958, mentre Il consiglio d'Egitto è del 1963. Sono di quei romanzi che Vittorini faticava a pubblicare perché in controtendenza rispetto all'ottimismo del boom economico e all'impegno civile e intellettuale che la società italiana, a seconda dei propri strati e differenziazioni, esprimeva in quegli anni. Mi sembra ben forte il messaggio che dice che le idee libertarie dell'illuminismo, quei "pidocchi" saltanti di testa in testa dalla Francia alla Sicilia, rimasero solo un fenomeno ristretto a pochi intellettuali, privo quasi del tutto di appoggio popolare. E che un'oligarchia ben poco illuminata e autoreferenziale, insofferente verso ogni limitazione delle proprie prerogative, si gioca le sorti del Paese, allora come adesso. E con gli stessi mezzi, tra gli altri: vedere la sordida, arzigogolata finezza con cui, accostando Di Blasi ad un brigante, il principe di Trabia mistifica e infanga i valori ideali dell'avvocato.
L'abate Vella è invece uno splendido, affascinante narciso; la sua impostura è dettata dapprima dall'ambizione, poi, prigioniero della sua stessa sottile rete, dal desiderio di mostrare al mondo la finezza del suo raggiro. Nei momenti più critici delle proprie parabole Di Blasi e Vella trovano parole di autostraniamento: come a voler dire che solo la fantasia e l'evasione dalla sordidezza della realtà di questo mondo possono alleviare la sopportazione o salvare l'uomo dalle prove che gli sono riservate.
(A lato, Silvio Orlando nei panni dell'Abate Vella nell'omonimo film di Emidio Greco)
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