domenica 20 luglio 2014

La Martorana di Palermo

Il campanile normanno (sec. XII)
Le foto e le righe che seguono non hanno l'ambizione di documentare in maniera esauriente lo splendore e i tesori artistici della Chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio (o "La Martorana") di Palermo: sono il mio semplice, personale modo di fissare nella memoria alcuni scampoli di bellezza che non si possono non avvertire varcando la soglia e alzando gli occhi alle volte di questo meraviglioso tempio della cristianità.   

La chiesa fu eretta nel 1143 da Giorgio d'Antiochia, Ammiraglio di Ruggero II (per questo motivo è conosciuta anche come Chiesa dell'Ammiraglio). Lo splendido interno ne testimonia la lunga storia: impreziosito da un ciclo musivo bizantino che ha pari solo nella celeberrima Cappella Palatina, fu rimaneggiato e "allungato" nel 1588 chiudendo il vecchio portico e unendolo al campanile, una delle parti non coinvolte nel restyling. Al periodo barocco risalgono, quindi, il soffitto della parte "nuova", affrescato nel '700 da Guglielmo Borremans e Olivio Sozzi, l'abside e l'altare (1683), e infine la nuova facciata, che dà su Piazza Bellini. 

Al sommo della cupola: "il Pantocratore", ai lati, figure di Profeti


Re Ruggero incoronato da Gesù
Nel 1221 la chiesa fu affidata al clero greco; nel 1433 Alfonso d'Aragona la "annesse" all'adiacente monastero benedettino, fondato nel 1194 da Eloisa Martorana: questa l'origine dell'altra denominazione, La Martorana. E, per una affascinante successione di "eponimi", da qui deriva il nome dei celebri dolci di marzapane, dalle invitanti forme di frutta, preparati dalle monache benedettine. Dal 1937 è concattredrale della Diocesi di Piana degli Albanesi, ed è affidata alla omonima Eparchia, officiante secondo il rito bizantino.


Tra gli avvenimenti storici legati a questo tempio, segnalo l'adunata dei baroni e rappresentanti delle città siciliane che nel 1282, dopo il Vespro, decisero di offrire la Corona di Sicilia a Pietro d'Aragona.

Transito della Vergine

martedì 15 luglio 2014

Dalla parte delle vittime

L'acuta e condivisibile riflessione di Violetta Andriolo a proposito delle manifestazioni contro le dure rappresaglie israeliane in Palestina, che ho molto apprezzato per chiarezza e lucidità, sottolinea l'importanza di schierarsi dalla parte delle vittime contro le atrocità mettendo in guardia dal tranello delle facili generalizzazioni, abitudine spesso indotta - a dire il vero - dalla scarsa informazione della gente e dalla discutibile qualità di alcuni giornali e notiziari. Avverso a questa abitudine, sono dell'opinione che problemi di tale complessità e gravità debbano essere affrontati in maniera più problematica, sforzandosi di evitare la parzialità, la miopia ideologica, e cercando di non farsi tentare dall'altra, pericolosa tendenza che sfocia nel "sono tutti uguali".

Emmanuel Carrère
Rileggendo Limonov di Emmanuel Carrère, la splendida biografia romanzata dedicata allo scrittore e attivista russo Eduard Limonov, mi sono imbattuto in un brano in cui l'autore affronta esattamente tutti questi temi e annota quasi le stesse riflessioni, con l'unica differenza che queste scaturiscono dalla terribile esperienza del conflitto nella ex Jugoslavia, in particolare tra serbi e bosniaci. Le parole dello scrittore francese, che condivido pienamente come quelle di Violetta Andriolo, meritano di essere riportate per la loro estrema lucidità e per la loro importanza e, non ultimo, per la (casuale?) coincidenza di averle apprezzate quasi nello stesso momento.

Carrère parla di Jean Hatzfeld, giornalista francese che, un anno dopo aver subito l'amputazione della gamba per colpa di una raffica di mitra che credeva provenire dalle fila degli assedianti serbi, torna a Sarajevo per scoprire, dopo lunghe ricerche, che a ferirlo era stato il fuoco dei miliziani bosniaci. Carrère ammira l'onesta intellettuale di giornalisti come Jean Hatzfeld o Jean Rolin, autori di pregevoli reportage su quella sporca guerra.

"Questa onestà mi colpisce ancor più perché non sfocia nel «sono tutti uguali» che è la tentazione di quelli che la sanno lunga. Giacché arriva infatti il momento in cui bisogna scegliere da che parte stare, o comunque da quale posizione osservare gli eventi. Superata la prima fase dell'assedio di Sarajevo quando, con l'acceleratore a tavoletta e a prezzo di enormi spaventi, era ancora possibile bordeggiare da un fronte all'altro, si doveva scegliere se raccontare gli eventi dall'interno della città assediata o dalle postazioni degli assedianti. Anche per uomini come i due Jean [Hatzfeld e Rolin, ndr], restii a unirsi al coro delle anime belle, la scelta è stata naturale: quando uno è più debole e l'altro più forte, si continua, per onestà, a sottolineare che il più debole non è tutto bianco e il più forte non è tutto nero, ma ci si schiera col più debole. Si va dove cadono le granate, non dove partono.

domenica 6 luglio 2014

Eduard e Elena

Eduard Limonov e Elena Ščapova,  Mosca 1974
L'immagine qui accanto raffigura Eduard Savenko, alias Limonov, assieme alla prima moglie Elena, risalente al 1974, poco prima della fuga in Occidente. Emmanuel Carrère, nella fortunata biografia romanzata dedicata a Limonov (e che ha reso celebre contemporaneamente l'autore e l'eroe del suo libro), fa riferimento proprio a questa fotografia e, tratteggiando con brio acuto il sottobosco dissidente della Mosca brežneviana, definisce Eduard ed Elena come i sovrani di quella vivace e occulta bohème. «Se attorno al 1970 – continua Carrère - c'è stato in unione Sovietica qualcosa di simile al glamour», qualcosa di simile alle foto patinate delle riviste occidentali che circolavano clandestinamente in Russia, «ebbene Eduard e Tanja* ne sono stati l'incarnazione». Lei bellissima, longilinea e trasgressiva, già sposata al pittore finto-dissidente Ščapov; lui fiero, trionfante, giovane poeta fuggito dal grigiore della provincia ucraina. In questa foto, che egli considera un “attestato al merito” (di aver avuto, amato e essere stato riamato da quella donna), Eduard ostenta una giacca formata da centoquattordici pezzi di stoffa variopinta, simbolo della sua eccentricità e del suo spirito di adattamento e sopravvivenza – sbarca il lunario nella capitale come sarto di giacche, i cui modelli copia nelle riviste clandestine. Pochi anni dopo le strade dei due giovani si divideranno, formando due storie diverse e avvincenti: la prima l'ha raccontata Limonov stesso nei suoi numerosi libri, e poi Carrère nella sua splendida biografia; la seconda invece, ancora sconosciuta da noi, è raccontata in un libro della contessa De Carli, ovvero da Elena stessa (il titolo è Sono io, Elena, in risposta al libro dell'ex marito Sono io, Edička), diventata contessa in seguito al matrimonio con il conte Gianfranco De Carli.
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*Inspiegabilmente, l'edizione italiana di Limonov di Carrère cambia il nome di Elena con Tanja, e la fa sposare ad un marchese spagnolo.